Dalla letteratura: un viaggio attraverso il viaggio dei viaggi,
l’Odissea e Ulisse. Il viaggio come metafora della vita,
il viaggio come metafora della malattia

Daniela Scala

Riassunto. La letteratura è uno strumento delle Medical Humanities, insieme di discipline che si avvale del contributo delle scienze umanistiche, delle scienze sociali e delle arti espressive, e che possono essere definite come qualsiasi forma sistemica di studio che si propone di raccogliere e interpretare l’esperienza umana. L’Odissea è letteratura e racconta di un viaggio… Quante volte abbiamo sentito riferire da pazienti… “quando ho iniziato il mio viaggio nella malattia…” “la malattia è stata come un viaggio”. Un viaggiatore per antonomasia è Ulisse e l’Odissea è il racconto del suo viaggio per tornare alla sua Itaca. Questo articolo si pone l’obiettivo di offrire “diverse letture” dell’Odissea e del suo eroe passando per uno di principali interpreti dell’eroe omerico, Dante e per finire con la riflessione di Recalcati su Ulisse e sulle potenzialità legate alla letteratura.

Parole chiave: Viaggio, malattia, Medical Humanities, narrazione.

From literature: a journey through the journeys’journey,
the Odyssey and Ulysses. Journey as a metaphor for life,
journey as a metaphor for illness

Summary. Literature is a tool of the Medical Humanities. Medical Humanities is a multidisciplinary field, consisting of humanistic subjects and artistic forms such as philosophy, ethics, literature, theatre, cinema, figurative arts and music. They can be also defined as any systemic form of study aiming at collecting and interpreting the human experience. The Odyssey is literature and tells a story of a journey … How many times have we heard from patients … “when I started my illness journey…” “the illness is like a journey”. Ulysses is the traveler par excellence and the Odyssey is the story of his journey back to home, Ithaca. This article aims to offer “different readings” of the Odyssey and its hero passing through one of the main interpreters of the homeric hero, Dante, and ending with the Recalcati’s reflection on Ulysses and on the potentiality linked to reading.

Key words: Journey, illness, Medical Humanites, narration.

La letteratura è uno strumento delle Medical Humanities, insieme di discipline che si avvale del contributo delle scienze umanistiche, delle scienze sociali e delle arti espressive, e che possono essere definite come “qualsiasi forma sistemica di studio che si propone di raccogliere e interpretare l’esperienza umana”.1,2 L’Odissea è letteratura e racconta di un viaggio.
Quante volte abbiamo sentito riferire da pazienti “quando ho iniziato il mio viaggio nella malattia…” “la malattia è stata come un viaggio” ecc.
Spesso, dai racconti scritti dai pazienti sotto forma di fiaba, si tratta di un viaggio fantastico in cui attraversano luoghi naturali, misteriosi dove incontrano animali e personaggi bizzarri o sorprendenti insieme a quelli più reali, che forniscono loro rimedi magici o soprannaturali.
La malattia, infatti, spesso rappresenta un viaggio di ricerca interiore, un viaggio spirituale alla ricerca di una cura per ritrovare se stesso, come per Tiziano Terzani nel suo ultimo libro “Un altro Giro di Giostra”.3 Un’opportunità, come in uno dei modelli, quello della quest narrative, proposto da Artur Frank, la narrazione di ricerca.4 Attraverso questa narrazione le persone malate intendono la loro sofferenza come parte di quel viaggio che è la loro vita, vedono la malattia come una sorta di opportunità, un’ occasione di un viaggio che diventa ricerca e la persona malata non sarà più la stessa che era prima della malattia. 
Un viaggiatore per antonomasia è Ulisse e l’Odissea è il racconto del suo viaggio per tornare alla sua casa, Itaca.
Il personaggio Ulisse ha sedotto molti poeti e drammaturghi d’età posteriore; un grande interprete di Ulisse omerico è stato certamente Dante: che mentre gli riconosce la sua caratteristica peculiare di consigliere fraudolento e di furbo mentitore, e gli riserva un posto all’inferno tra i tessitori di inganni, in quanto più volte, ha abusato della buona fede altrui, nello stesso tempo gli legittima la straordinaria sete di conoscenza, quella curiosità, quasi scientifica, che si ritrova in più parti dell’Odissea, il suo viaggio di ritorno a Itaca.5 Ed è proprio la dimensione del viaggio che colpisce Dante; per seguire virtute e canoscenza Ulisse affronta un viaggio lungo, logorante, su un mare pieno di pericoli, tra luoghi impervi e gente minacciosa, un percorso contrassegnato dall’ignoto, dall’avventura ma anche esaltato dal fascino dell’esplorazione, dal piacere appagante della scoperta. Ulisse, quindi, è visto da Dante come un uomo che rinuncia alla gioia del rientro in patria e in famiglia per amore della conoscenza, del sapere.
La Divina Commedia, d’altra parte è il sogno o il viaggio fantastico che Dante compie nell’al di là, dopo essersi smarrito, nel mezzo del cammin della vita, nella terribile selva oscura del peccato. Un viaggio che, allegoricamente, rappresenta il cammino che l’uomo deve intraprendere per sfuggire alle insidie del peccato e giungere poi alla purificazione, a godere della luce di Dio. Per Dante, Dio rappresenta la felicità, quindi il suo viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, è la metafora del viaggio dell’uomo attraverso la vita stessa che ha come fine ultimo la felicità.
Dante e Ulisse due viaggiatori, con analogie e differenze. Entrambi procedono su un cammino in linea retta, ma mentre Ulisse procede più su un piano orizzontale, Dante più su un piano verticale di “ascesa”, di salita verso la luce divina. Dante è il pellegrino che cerca la salvezza, Ulisse è l’esploratore che va verso la conoscenza a tutti i costi. Le motivazioni che li mettono in viaggio sono simili: entrambi si muovono per sete di conoscenza, ma mentre per Dante la conoscenza cresce contemporaneamente alla crescita morale, per Ulisse, invece, sembra ci sia una separazione fra conoscenza e morale. La conoscenza dantesca comprende un’ascesa verso i valori morali, è una conoscenza che cresce di pari passo con la moralità di chi desidera raggiungerla. Per Ulisse invece la sete di conoscenza non è legata a questi valori. La figura di Ulisse acquista nella Divina Commedia i caratteri dello scopritore di nuove terre, dell’esploratore audace. Immagine che piaceva sicuramente a Dante per la forza che esprimeva ma, nello stesso tempo, il poeta fiorentino condannava la sua discutibile moralità. Nella Divina Commedia questa esagerata sete di conoscenza diventa qualcosa di negativo, qualcosa che bisogna sforzarsi di controllare per non superare i limiti posti da Dio altrimenti, come per Ulisse, si riesce nell’impresa di valicare i confini del mondo (le famose colonne d’Ercole), ma con la conseguenza del naufragio e quindi della dannazione e della discesa verso l’Inferno.
Possiamo “leggere” l’Odissea in maniera diversa? Leggere diversamente il suo protagonista? Il suo viaggio? 
L’Odissea racconta di un uomo dalla tempra dura e della sua volontà di resistere alla morte. Non dobbiamo forse affrontare sempre prove di sopravvivenza, di resistenza, di tenuta di fronte alla violenza caotica della vita? Di malattia?
In Ulisse non c’è solo l’avidità dello spirito umano che non si accontenta di quello che ha, che vuole andare sempre oltre, che aspira a superare il già visto e il già conosciuto; non c’è in primo piano lo spirito di esplorazione e di investigazione che non conosce alcun senso del limite. Che dire dell’Ulisse che nasconde il proprio volto che si riga di lacrime (“… le lacrime bagnavan le guance sotto le ciglia…”) in occasione della cena offerta in suo nome da Alcinoo, re dei Feaci, dopo essere naufragato solitario sulla sua terra?6 Un sentimento di vergogna scende su di lui e lo obbliga quasi a nascondere la propria immagine, a nascondere il suo “pianto angoscioso” e i suoi “singhiozzi pesanti” quando ascolta il “divino poeta” ceco Demodoco raccontare le sue gesta: la caduta di Troia, l’orrore dello scempio che gli Achei, penetrati all’interno della città grazie all’inganno del cavallo di legno ordito da Ulisse, perpetuano. Dove è finita l’arroganza con la quale, Ulisse, prima di lasciare l’isola dei Ciclopi, rivela a Polifemo accecato e furioso la sua vera identità; nella reggia dei Feaci, al contrario, è proprio la sua identità che lo ferisce. Lo stesso pianto che ritorna quando, seduto in riva al mare con la “dea luminosa” Calipso ripensa alla sua casa. O quando, una volta tornato a Itaca, si trova di fronte al vecchio cane Argo che attendeva fedelmente il suo ritorno, abbandonato su un mucchio di letame, prima di lasciarsi morire. Non l’astuto, l’abile lottatore, il navigatore intrepido, il re; ma il naufrago, il mendicante, l’eroe che si finge “nessuno”, che conosce l’arte della diminuzione, il padre che torna dal figlio e dalla sua amata Penelope. Un Ulisse che nudo naufraga sull’isola dei Feaci senza compagni, affamato, abbattuto, lontano da casa, perso, ricoperto di foglie secche per proteggersi dal freddo della notte, che viene accolto dalla bellissima Nausicaa. Un naufragio che è il risultato del rifiuto dell’immortalità promessa dalla dea Calipso in cambio del suo amore. Ulisse invece resta fedele innanzitutto alla sua memoria, dunque alla sua famiglia, alla sua donna. Come era possibile? Quanto Ulisse deve aver amato? Perché non ha ceduto alle lusinghe della divina e bellissima Calipso? Perché ha preferito alla dea immortale la sua Penelope, la sua terra, la sua casa?
Si può “leggere” così l’Odissea e Ulisse? Non virtù guerriere e spirito di conoscenza, ma attaccamento ai suoi amori, Penelope e Telemaco in un connubio tra forza e fragilità.
Per ritornare ai modelli di narrazione proposti da Frank, se ci fermiamo al ritorno di Ulisse ad Itaca, come di solito accade alla maggior parte dei lettori cui piace il lieto fine, l’Odissea è una restituition narrative, ossia la forma predominante di narrazione di malattia e di salute che sottende la linea narrativa di base: “ieri ero sano, oggi sono malato, ma domani sarò nuovamente sano”. In questo modello ritroviamo appieno il ruolo del malato orientato verso la guarigione, in quanto deve e vuole ritornare al proprio stato di sano.4 Ulisse che non vuole più errare ma tornare ad essere quello che era prima. 
Ma possiamo “leggere” ancora altro.
Come si conclude l’Odissea? Dopo tutte quelle peregrinazioni Ulisse deve ancora navigare, tornare nel “alto mare aperto”, come gli ha rivelato Tiresia il giorno della sua discesa nell’Ade, tra i morti. A vendetta fatta contro i Proci, Ulisse dovrà andare da gente che non conosce il mare, dovrà compiere un ultimo viaggio ma non tornerà più a terra “…per te la morte verrà fuori dal mare... questo senza errore ti annunzio…”. Quindi il suo ritorno non rappresenta l’appropriazione finale del proprio destino, la realizzazione compiuta di un viaggio che pareva interminabile che finalmente trova la sua meta. Ulisse tornando a Itaca non mette fine al suo dolore, non mette pace al suo tormento. Nessun recupero di un’identità perduta, nessuna ricomposizione finale della lacerazione, nessuna pacificazione.6 
Tornando a Frank, quest narrative? O forse chaos narrative, il terzo modello che rappresenta l’estremo opposto del restitution narrative e non contempla in nessun modo miglioramenti nella condizione di salute “Chaos is the opposite of restitution: its plot imagines life never getting better” riporta Frank.4 Questo è quello che ha provato Ulisse di fronte all’ombra dell’indovino tebano Tiresia? 
Questa è un’altra possibile lettura.
Ogni lettura è di parte, ogni lettore trova nella lettura qualcosa che gli appartiene in qualche modo, che lo avvince in maniera speciale.
Perché?
“Perché quando leggo un libro”, come dice Massimo Recalcati nel suo A libro aperto, “non mi limito ad assorbire cognitivamente il suo mondo narrativo o teorico, ma incontro qualcosa – una x, che in quel libro – mi legge. È un’esperienza che può coinvolgere profondamente il lettore. Quando leggiamo un libro possiamo fare l’esperienza di sentirci nello stesso tempo letti dal libro che leggiamo. Così che impariamo qualcosa di chi siamo dal libro che leggiamo, perché noi stessi in fondo siamo un libro che attende di essere letto”.6 Ogni volta che lo leggiamo, in momenti diversi della nostra vita, il libro ci restituisce parti di noi, ogni volta scopriamo qualcosa di nuovo, come per Massimo Recalcati nel leggere l’Odissea.6
Ogni opera ci legge e leggendoci ci svela parti di noi, che ancora non conosciamo coscientemente e divenirne consapevoli è importante, perché tutte le “nostre parti” entrano in gioco nella relazione con il paziente, con i familiari e con gli altri professionisti della salute.
Una formazione alle Medical Humanities consente al professionista della salute di acquisire l’abilità di cogliere non solo le diverse modalità con cui le persone comunicano le loro emozioni, ma anche di riconoscere le proprie; di comprendere la specificità e unicità dell’esperienza del paziente e della propria come professionista della salute, senza limitarsi alla sola dimensione biomedica; di costruire una sensibilità etica, ossia una capacità di azione professionale che consideri non solo i propri valori, ma anche quelli dell’altro; di coltivare una costante autoriflessione, soprattutto sulle reazioni personali alle esperienze dell’altro. Le Medical Humanities, che sono state inizialmente introdotte per imparare ad aver cura dei pazienti, sono in ultima istanza un modo per aver cura anche di noi stessi.1 


Bibliografia

1. Zannini L. Medical humanities e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura. Milano: Raffaello Cortina, 2008.
2. Scala D. L’arte di guarire, guarire con l’arte. Boll SIFO 2012;58(2):106-9.
3. Scala D. Invito alla lettura: Un altro giro di giostra (2004) di Tiziano Terzani. GIFAC 2018;32(3):133-7.
4. Frank A W. The Wounded Storyteller. Univ. of Chicago Press, Chicago, IL, 1995.
5. Lauriello G. Grandezza e drammi nella letteratura italiana. Un percorso medico-psicologico. Napoli: Giuseppe De Nicola, 2019.
6. Recalcati M. A libro aperto. Una vita e i suoi libri. Milano: Feltrinelli, 2018.