Una breve storia della farmacologia occidentale

Roberto Colonna, Antonella Piscitelli, Vincenzo Iadevaia
Centro Interdipartimentale di Ricerca in Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione (CIRFF) - Università degli Studi di Napoli, Federico II


Care colleghe, cari colleghi,
il denso articolo che vi apprestate a leggere, scritto da Roberto Colonna, Antonella Piscitelli e Vincenzo Iadevaia del Centro Interdipartimentale di ricerca in Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione (CIRFF) dell’Università Federico II di Napoli, è una colta e approfondita disamina storica che analizza le principali tappe che hanno segnato il lungo percorso della farmacologia occidentale. Una disamina in cui non mancano spunti di sociologia medicale e di filosofia, soprattutto in relazione alla farmacologia greco-romana e a quella cinquecentesca, che la collocano a pieno titolo nell’ambito delle Medical Humanities. Del resto, già da una rapida scorsa alla sua ricca bibliografia, è possibile intuire la dimensione interdisciplinare di questo saggio, nonché la sua vocazione a volersi porre a metà strada tra scienze cosiddette esatte e scienza cosiddette umane. Il fine dichiarato degli autori, d’altronde, è quello di offrire, tanto allo specialista, quanto all’appassionato, un efficace strumento di ricerca per colmare eventuali lacune o, ancor meglio, di stimolare il lettore ad approfondire qualche passaggio e a scriverne egli stesso.
Buona lettura

Daniela Scala
sdaniela2000@yahoo.com

Il declino inizia quando la gente cerca di mantenere immutate le cose.
Rachel Cusk, Transiti


Riassunto. Questo saggio si propone di offrire una concisa panoramica sulle principali dinamiche che hanno segnato la storia della farmacologia occidentale. L’obiettivo del lavoro è suggerire una possibile storicizzazione - per comprenderne il contesto socio-culturale del tempo - di quei dettami sui quali si fonda e si sviluppa la quotidiana attività di ricerca di chi conduce studi in ambito farmacologico. In ragione di ciò, si è di proposito ristretto il campo a quella trasversale e “s-confinata” regione che si suole definire con il termine “Occidente”. Ciononostante, benché mossi da spirito di genuina acribia, si è ovviamente consapevoli delle lacune, anche di natura bibliografica, a cui questo tipo di imprese espone, e a cui si può porre rimedio solo con la vincolante rivelazione che questo sforzo altro non sia che il primo passo in un percorso ben più lungo e, si spera, fruttuoso.

Parole chiave: Farmacologia, Storia della Farmacologia, Storia della Medicina, Sociologia Medicale, Storia delle idee.


A brief history of western pharmacology
Summary. This essay aims to offer a concise overview of the main dynamics that have marked the history of Western pharmacology. The objective of this work is to suggest a possible historicization to understand the socio-cultural context of the time in which the main discoveries in the pharmacological field have taken place. For this reason, the study has been restricted to the transversal “region” that is usually defined by the term “West”. Nevertheless, although moved by a spirit of genuine and meticulous precision, we are obviously aware of the shortcomings, even of a bibliographic nature, to which this type of enterprise exposes, and which can be remedied only with the binding revelation that this effort is nothing more than the first step in a much longer and, hopefully, fruitful path.

Key words: Pharmacology, History of Pharmacology, History of Medicine, Medical Sociology, History of ideas.


La ricerca di rimedi efficaci contro il dolore e la malattia ha caratterizzato la storia dell’umanità sin dalle sue origini.1 Le prime forme di farmacologia si possono probabilmente già rintracciare in quei tentativi condotti dai cosiddetti uomini primitivi volti a riconoscere le proprietà benefiche contenute in erbe, acque sorgive e sostanze alimentari. A questi tentativi, che si andarono, via via, sempre più perfezionando, ben presto si affiancarono una serie di teorie accumunate dall’idea che l’azione terapeutica potesse essere potenziata con il ricorso a pratiche magico-religiose in grado di facilitare la guarigione “scacciando” dal corpo del malato lo “spirito cattivo” responsabile della patologia. 2
La medicina magico sacerdotale ha avuto, del resto, per un lungo periodo, un ruolo predominante nelle dinamiche culturali di molteplici etnie, attraversando di fatto tutte le civiltà antiche, da quella assiro-babilonese a quella fenicia, dalla cretese alla micenea, dalla cinese all’indiana, dall’egizia alla Grecia pre-classica.3 Sarà con Ippocrate, nell’Atene del Secolo V a.C., che la pratica medico-farmaceutica si emanciperà da questa sorta di teurgia scientifica, per puntare a un tipo di conoscenza basata sull’osservazione e sull’esperienza. Con la famosa “dottrina dei quattro umori” (flegma, sangue, bile nera e bile gialla), il medico di Coo svilupperà una teoria destinata a dominare la medicina dogmatica fino a Galeno che, a sua volta, la rielaborerà, consacrandola fino al Rinascimento quale punto di riferimento inconfutabile.
Partendo dalle suggestioni proposte da Alcmeone, e prima ancora da Anassimene (la teoria dei quattro elementi fondamentali, aria, acqua, fuoco e terra) e da Empedocle (la teoria delle “radici” origine di ogni cosa), Ippocrate sostenne che gli umori, o liquidi organici, fossero molteplici e che agissero nell’organismo mediante indefinite dynameis (caratteristiche), una posizione quest’ultima poi sposata anche da Anassagora con l’idea di infinità dei “semi”.4 In altre parole, gli umori non costituiscono qualcosa di “immobile”, in quanto, proprio perché liquidi organici, possono trasmutare l’uno nell’altro e far interagire le varie dynameis presenti (per esempio, l’acidità, l’astringenza o la “zuccherosità”), generando innumerevoli possibili combinazioni e, dunque, situazioni.5 Allo stesso modo, insieme a una quantità di altri fattori (anatomici, dietetici, geografici), gli umori influenzano la configurazione dei tipi psicosomatici che fungono «da regole orientative nella valutazione della molteplicità dei casi individuali».6 Sicché, soltanto dall’osservazione empirica è possibile rilevare l’importanza nei processi morbosi di alcuni umori rispetto ad altri, e ciò spiega la ragione per cui il «flegma era chiamato il liquido biancastro, freddo e acre che si manifestava nelle malattie dell’apparato respiratorio o nelle affezioni acute degli occhi; la nozione di bile nera poteva allo stesso modo derivare dalle feci dei malati che soffrono di ulcere gastriche, da certi vomiti, dalle urine prodotte da una forma di malaria; la bile gialla pure dai vomiti e da altri tipi di feci». 7
La medicina greca, e, in generale, la medicina antica, non conosceva però l’attività patogena dei microorganismi e, anzi, attribuiva l’origine delle malattie epidemiche all’aria carica di miasmi (si pensi, per esempio, all’espressione “mala aria” da cui derivò il nome della malaria) e alle variazioni delle condizioni atmosferiche e climatiche.8,9 I medicamenti greci, pertanto, si concentrarono sugli stati di intossicazione, veri o presunti, che si supponeva minassero l’equilibrio dell’organismo e, quindi, della salute. La continua ricerca di rimedi in questa direzione permise di accumulare un cospicuo bagaglio di esperienze, ponendo di fatto le basi della moderna tossicologia. A tal riguardo, è possibile indicare, quale una delle prime relazioni tossicologiche, l’accurato resoconto, fornito da Platone nel Fedone, sulle proprietà del succo di cicuta in occasione della morte di Socrate: «la descrizione data dal filosofo greco della paralisi dei nervi sensitivi e motori, con depressione del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e con comparsa della paralisi respiratoria, coincide molto bene con le azioni, oggi conosciute, dell’alcaloide della cicuta, la Coniina».10,11
L’osservazione diretta della natura, la classificazione dei suoi fenomeni, l’elaborazione di una casistica o la finale compilazione di corpora, furono alcuni dei tratti distintivi dell’approccio epistemologico degli etruschi e testimoniano come questo popolo avesse compreso gli elementi costitutivi di una scienza propriamente detta, per quanto maturata e gestita con stimoli e intenti magico religiosi.12
La civiltà etrusca, affermatasi a partire dal Secolo IX a.C. in un’area che comprendeva le attuali regioni italiane della Toscana, dell’Umbria e del Lazio settentrionale, ma anche ampie zone della Liguria, dell’Emilia Romagna, della Lombardia e della Campania,13 per oltre mezzo millennio influenzò la cultura romana.13 Eppure, proprio i romani non solo li sconfissero militarmente ma – è il caso di dirlo – ne fagocitarono usi e costumi, cancellando le stimmate della loro esistenza, di cui, infatti, sopravvive eco nei saltuari riferimenti nelle opere di autori greci e latini e nei numerosi, imponenti, siti archeologici.14 Non deve dunque destare sorpresa se nel mondo antico gli etruschi godettero di eccezionale fama per le loro conoscenze in ambito medico (e, in particolare, nelle tecniche odontoiatriche di cui furono, in quei tempi, indiscussi maestri), chirurgico e fitoterapico.15 La loro Weltanschauung si fondava sull’idea che ogni aspetto ed elemento nella natura avesse un senso, un valore, un’efficacia, perché espressione di un’energia capace di agire sull’uomo sia in modo benefico, sia malefico.16 Proprio a partire da questo assioma, gli etruschi definirono un sistema medicale che, retto da una ristretta cerchia di membri dell’ordine sacerdotale, si fondava su una estesa farmacopea e sull’utilizzo a scopo curativo delle acque termali.17 L’importanza di questa farmacopea fu sottolineata già da Dioscoride, il quale ricorda ben tredici essenze vegetali a cui gli etruschi riconoscevano virtù officinali, tra l’altro tutt’oggi ancora accettate.18 Del resto, la possibilità di avere a disposizione con una certa facilità, un’abbondante vegetazione mediterranea bassa e cespugliosa di piante ricche di succhi corroboranti e stimolanti, come, per esempio, la Salvia, il Rosmarino, il Timo e la Maggiorana, o di piante arbustive ed erbacee ad alto contenuto di olii essenziali, agevolò non di poco la progettazione di efficaci fitofarmaci.19 A ciò deve aggiungersi che gli etruschi includevano nella loro farmacologia anche alcuni minerali come la limatura e l’ossido di ferro (per contrastare le anemie), il rame (per lenire le infiammazioni) e alcuni sali (sodio e potassio). Non è dato sapere invece se adoperassero i loro medicamenti come “semplici” o in combinazione tra di loro, mentre è probabile che le piante medicinali venissero sfruttate sotto forma di empiastri, unguenti e pomate, preparati utilizzando grassi di varia natura e olio di oliva come veicoli eccipienti. 20
Le cognizioni greche ed etrusche di farmacologia furono acquisite e perfezionate a Roma, dove il numero dei prodotti vegetali impiegati in terapia aumentò considerevolmente. D’altronde, per lungo tempo i romani vissero in una condizione di inferiorità scientifica rispetto a queste civiltà che, come si è visto, svilupparono le loro conoscenze sulla base di esperienze concrete e risultati verificati.21 A Roma, invece, dominarono per diversi secoli una serie di medicine e farmacologie di stampo primitivo, come quella teurgica, sacerdotale, magica e patriarcale, espressioni di superstizioni o, al massimo, di esperienze empiriche quotidiane. Il passaggio da queste concezioni primitive, che comunque non scomparvero mai del tutto, a una medicina-farmacologia imperniata su criteri più razionali, fu lento e graduale.22-26 Una tappa significativa di questo cammino fu senza dubbio il decreto del 46 a.C. di Giulio Cesare che concedeva la “preziosa” e “desiderata” cittadinanza romana ai medici e ai maestri non appartenenti alla repubblica.27 A seguito di tale decreto, il numero di medici aumentò esponenzialmente e la maggioranza di essi, che proveniva dalle scuole greche o egiziane, diffusero a Roma la medicina scientifica del loro tempo.28
I medicamenti nella Roma imperiale divennero così la sintesi di tradizioni differenti e annoveravano, oltre alle cure termali, farmaci ricavati dal regno minerale, animale e vegetale, somministrati attraverso infusioni, macerazioni, decotti, succhi, polveri, pillole, pasticche, unguenti, impiastri, cataplasmi, colliri e tamponi.29,30 Un elenco dettagliato dei preparati che i romani usavano, fu stilato in epoca neroniana da Dioscoride de Pedanio di Anazarba. A Dioscoride spetta il merito di essere stato il primo a raccogliere il complesso dei principi esistenti a quell’epoca sui farmaci, ordinandoli in maniera sistematica nel trattato Sulla materia medica, un’opera destinata a rimanere per quindici secoli la più autorevole del genere.31 Tra i clinici illustri, invece, spicca la figura di Galeno, medico di corte dell’imperatore Marco Aurelio, che ripropose con un nuovo e originale approccio la combinazione tra la medicina di ispirazione ippocratea e la filosofia.32 L’idea di fondo era che il medico da un lato dovesse «impossessarsi di un grande patrimonio di conoscenze in campo anatomico, fisiologico, chirurgico, farmacologico e dietetico», e dall’altro «acquisire una notevole padronanza dei grandi ambiti di indagine filosofica, tra i quali soprattutto la gnoseologia, la psicologia e l’etica».33-35 In tal modo, sarebbe stato possibile curare contemporaneamente la condizione fisica e lo stato mentale e morale di un paziente. Secondo Galeno, infatti, corpo, mente e anima costituivano un tutt’uno che non poteva essere scisso durante la terapia e che doveva tendere a una dimensione di costante equilibrio. Non a caso, oltre alla dieta e all’esercizio fisico, nella terapia galenica un ruolo di primo piano era svolto dagli evacuati, somministrati rispettando il principio contraria contrariis curantur, ossia provocare sintomi antagonisti alle manifestazioni della malattia. La perfetta condizione di equilibrio poteva dunque essere raggiunta dall’individuo mediante lo sviluppo di una vera e propria “etica della temperanza” volta non solo alla cura, ma alla prevenzione di comportamenti nocivi, morigerando i desideri tanto nella sfera alimentare che nelle abitudini di vita.36
L’enorme successo che ebbero le idee di Galeno – diventando per lungo tempo l’architrave, indiscusso e indiscutibile, della medicina occidentale – costituirà, quale incredibile paradosso, un freno non indifferente al progredire della scienza medica, fin quando, a partire dal Seicento, tecnologie e nuove conoscenze ne metteranno in discussione i capisaldi.
La cultura araba che, con il disgregarsi dell’impero romano, si sovrappose e si sostituì a quella greco-latina in vaste aree del bacino del Mediterraneo, in ambito farmacologico valorizzò ulteriormente l’uso delle erbe medicinali e si fece interprete, recuperandoli dall’oblio provocato dalle “invasioni-migrazioni barbariche”, dei grandi classici dell’epoca – Galeno in massima parte, ma anche Ippocrate e Dioscoride – che in questo modo poterono rientrare di nuovo nel circuito europeo. 37
Del resto, con la conquista araba di Alessandria d’Egitto nel 642 d.C., iniziò quel processo di ellenizzazione dell’islam che ebbe il suo momento di maggior splendore durante il califfato abbaside, tra la fondazione di Baghdad (762 d.C.) e il Secolo IX: in particolare, nel regno del califfo al-Ma’mum venne fondata la Casa della Sapienza (Bayt al-Hikma), un’accademia per scienziati, filosofi e traduttori.38 Proprio la traduzione, che avrà un ruolo di primo piano in questa fase, ebbe come mentore e figura d’eccezione Hunayn ibn Ishaq, un nestoriano che padroneggiava il greco, l’arabo e il siriaco, a riprova della varietà e dell’ampiezza degli influssi culturali presenti nel mondo islamico di quel tempo Hunayn, oltre a essere un filosofo, il principale traduttore delle opere di Galeno e l’inventore, sia sul piano lessicale sia sintattico, dell’arabo scientifico, è considerato, benché non lo fosse in senso stretto, il primo esponente della medicina islamica. 39,40
Il più importante pensatore del periodo d’oro della cultura islamica fu, tuttavia, Ibn-Sina, noto in Occidente come Avicenna, che fu filosofo, matematico, alchimista e medico: nella sua sterminata produzione bibliografica, insieme ai celebri Il libro die rimedi e Libro della guarigione, occupa un posto di primo piano Il canone di medicina, un testo avanguardistico che, riprendendo e riordinando in modo sistematico gli insegnamenti di Ippocrate e Galeno, diventerà il manuale di medicina più utilizzato e studiato almeno fino al Secolo XVIII.41
Se le cognizioni mediche islamiche riconoscevano una derivazione quasi interamente greco-latina, nel campo della farmacologia gli arabi assorbirono nozioni ed esperienze provenienti dalle numerose, e spesso remote, culture con cui venivano a contatto per motivi commerciali.42 In tal modo, conobbero farmaci e medicamenti che giungevano dall’Egitto, dalla Siria, dalla Persia, dall’India, dalla Cina, dall’Asia sudorientale, dall’Himalaya e dall’Africa centrale, e che sino ad allora erano sconosciuti agli abitanti che vivevano sulle sponde del Mediterraneo.43 Agli arabi va, inoltre, il merito di aver avviato l’estrazione dei principi attivi aventi azione farmacologica da erbe e piante medicinali utilizzando una nuova pratica nota come alchimia. L’alchimia (al-kimiya), nata in ambiente ellenistico nell’Egitto del Secolo I d.C., fondeva competenze scientifiche con quelle “magiche”, e può essere considerata una delle progenitrici delle attuali chimica e chimica farmaceutica.44
Un’altra caratteristica sorprendente della farmacologia araba fu l’esistenza di raccolte di “farmaci sperimentati sui pazienti” per catalogare e conoscere le reazioni fisiologiche a un determinato stimolo o a una determinata patologia, che attestava la preferenza della terapeutica farmacologica rispetto a quella chirurgica.45 D’altro canto, in questo periodo, la professione del farmacista si separò da quella del medico e ciò permise l’apertura a Bagdad tra il 699 e il 765 d.C. delle prime farmacie intese in senso moderno e la compilazione, per la preparazione dei farmaci di vari “antidotari” e “dispensari” che svolsero il ruolo delle future farmacopee.46
La presenza degli arabi in Europa durante quella fase storica di frequente etichettata come Medioevo permise alle società del Vecchio Continente di non “dimenticare” le conquiste scientifiche acquisite nei secoli precedenti e, allo stesso tempo, di arricchire il bagaglio di conoscenze tanto in campo umanistico che terapeutico.47 Accanto a questo sapere d’importazione orientale, in questi anni una preziosa opera di approfondimento delle proprietà curative delle piante medicinali fu svolta prima nei monasteri e nei conventi, poi nelle nascenti università di Salerno, Bologna e Padova.48,49 
La medicina conventuale nacque in Italia nell’abbazia di Montecassino, fondata nel 529 d.C. da Benedetto da Norcia, e si espanse di monastero in monastero in gran parte dell’Europa continentale, tramandando il proprio patrimonio culturale attraverso gli Hortuli, libri redatti a mano che contenevano la descrizione dei “simplex” (semplici) coltivati negli orti dei conventi e con cui si preparavano le medicine.50 Tra i Secoli XIII e XIV si affermò la “galenica”, successivamente chiamata “tecnica farmaceutica”, che aveva il compito di mettere a punto il modo di preparare le varie formulazioni medicamentose per essere somministrate nella forma più opportuna. Nel 1231, nel Regno di Sicilia, come già era accaduto nel mondo islamico, la professione di farmacista si scisse da quella del medico: nel settembre di quell’anno, infatti, Federico II di Svevia, con l’ausilio di insigni giuristi del calibro di Pier della Vigna e Taddeo di Sessa, emanò il Liber Augustalis, noto con il nome di Costituzioni di Melfi, in cui si distingueva con estrema precisione l’esercizio del medico rispetto a quello del farmacista, detto “aromatario”, ossia venditore di aromi (che diventerà in seguito speziale).51,52 Questa separazione fu resa necessaria per l’accresciuta disponibilità di droghe vegetali - garantite fin dal Secolo XI dalla riapertura dei commerci con Asia e Africa a opera delle cosiddette Repubbliche marinare - che i medici, spesso, non sapevano gestire e che richiedeva la figura di uno specialista.
Un altro elemento caratterizzante della farmacologia medioevale fu la ripresa della teriaca (o anche triarca), una mistura medicinale costituita da svariati composti, tra cui spiccava la carne di vipera e l’oppio, usata inizialmente come antidoto contro il veleno dei serpenti, e poi come medicamento ritenuto capace di risolvere quasi ogni tipo di patologia. Questa sorta di polifarmaco ante litteram era conosciuto da lunghissimo tempo, addirittura, secondo la leggenda, pare che fosse stato inventato da Mitriade re del Ponto nel Secolo I d.C. per combattere la sua ossessiva paura di essere avvelenato dai suoi rivali.53,54 Quando le legioni di Gneo Pompeo Magno sconfissero in modo definitivo Mitriade, i medici romani vennero a conoscenza di questo rimedio, nello specifico, «spetta ad Andromaco il Vecchio, l’archiatra di Nerone, il perfezionamento della ricetta del “Mitridato”, alla quale aggiunse la carne di vipera, sicuro che l’uso della “fiera velenosa” avrebbe accresciuto l’utilità, il vigore e le virtù dell’antidoto. Nacque così la “Theriaca Magna” o “Theriaca di Andromaco”».55 Quasi scomparsa dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, tale preparato ricomparve grazie ad Avicenna, il quale esaltò la teriaca quale rimedio universale per curare dalle coliche addominali a qualsiasi tipo di febbre, dall’emicrania all’insonnia, dall’angina ai morsi di vipere e cani, dall’ipoacusia alla tosse.56,57 
Nel Secolo XVI questo medicamento ebbe un eccezionale successo al punto che «nelle spezierie di Venezia, Bologna, Napoli e Roma, preparato in grandi quantità, divenne un’importante voce per l’economia di quelle città e specialmente per quella di Venezia che, con le spezierie “Tre Torri”, “Allo Struzzo” (sita al Ponte dei Barettieri), “al Paradiso”, “alli Due Mori”, “al Redentore”, “al Doge”, “al Pellegrino”, “al Pomo d’Argento”, e da altre ancora, soddisfaceva le richieste provenienti da tutta Italia e dall’estero». 58,59
Questa dimensione che intrecciava erudizione e credenze troverà compimento nel Rinascimento quando saliranno alla ribalta insieme ai grandi uomini di scienza, anche ciarlatani e alchimisti.60 I Secoli XV e XVI furono in effetti popolati da un gran numero di medici tacciati di ciarlataneria, di cui uno dei più noti fu il bolognese Leonardo Fioravanti che iniziò a praticare il mestiere di chirurgo ma si inimicò le istituzioni mediche poiché a suo parere non erano in grado di adempiere ai propri compiti a causa di una impostazione prevalentemente teorica.61 Questa accusa si rifaceva alle teorie dello svizzero Paracelso, nome italianizzato dal latino (Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus Paracelsus) del medico, naturalista e filosofo Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim. Paracelso rifiutava la dottrina accademica e rigettava le idee di Ippocrate, Galeno e Avicenna, sostenendo l’importanza dell’esperienza concreta e diretta con la natura. La sua medicina, che egli definiva “spagirica”, era appunto fondata sullo studio della natura, delle sue leggi fisiche, telluriche e cosmiche, sull’esame critico dei fenomeni biologici e sul ricorso, per la terapia, a mezzi chimici, 62 in decisa opposizione alla tradizione ippocratica, galenica e araba. Paracelso, per certi aspetti, può essere considerato un pioniere della chimica farmaceutica poiché creò numerose preparazioni a scopo curativo con sostanze minerali (come mercurio, piombo, zolfo, ferro, arsenico, antimonio, solfato di rame) e vegetali (come il laudano) che puntavano a separare il “buono” dal “cattivo”, isolando, a seconda dei casi, attraverso la distillazione o la concentrazione, uno dei cinque principi attivi da lui individuati, ossia l’ ens astrale, ens venemi, ens naturale, ens spiritual ed ens dei.63,64
La figura di Paracelso è di fondamentale importanza per comprendere i grandi cambiamenti che si verificarono tra il tardo Medioevo e il Rinascimento. La sua ambiguità, il suo stare a metà strada tra un’epoca e un’altra, la sua forza nello scardinare saperi consolidati e forti nelle accademie, la sua incongruenza tra l’essere uomo di scienza e, al contempo, alchimista, fanno di Paracelso l’emblema di una società complessa, che riflette negli stilemi della sua personalità le caratteristiche di un’intera epoca. 65 Le apparenti contraddizioni di Paracelso, d’altronde, possono essere comprese a pieno solo storicizzando il suo approccio e il suo pensiero in un momento in cui, come si è visto, convivevano scienza e misticismo, rigore dell’osservazione medica e formule della superstizione e della magia popolare.66
Nel corso del Rinascimento due importanti eventi condizioneranno la farmacologia in modo sostanziale, l’invenzione della stampa e l’arrivo degli europei nel continente americano.
La stampa modificherà irreversibilmente la fruizione della conoscenza, redendone possibile l’accesso a tutti coloro capaci di comprendere la scrittura.67 La diffusione dei libri, che nei secoli passati era stato il risultato di un lungo e complesso processo realizzativo centrato sulla figura dell’amanuense, sarà semplificata dalla produzione seriale. Il primo manuale farmaceutico stampato, che trattava la preparazione di pozioni vegetali, oli, sciroppi, pillole e unguenti, fu il Luminare Maius di Giovanni Giacomo Manlio Del Bosco, edito a Pavia il 9 Aprile 1494. Questo manuale fu un formidabile ausilio pratico per medici e speziali e, nonostante i suoi limiti, divenne uno strumento insostituibile, «tanto da imporsi alla generale attenzione, in molte città italiane, per circa un secolo».68 Nondimeno, proprio l’opera di Del Bosco, pose la necessità dell’intervento «di una autorità costituita per conferire il crisma della ufficialità a un testo che doveva essere imposto in ogni spezieria, in modo da garantire la qualità e l’efficacia di quanto venisse realizzato».69 Nacque così la prima farmacopea, pubblicata a Firenze nel 1499 e intitolata Nuovo Receptario composto dal famossisimo Chollegio degli eximii Doctori della Arte et Medicina della inclita ciptà di Firenze.70
La colonizzazione europea dell’America a partire dal 1492 trasformerà nel giro di pochi decenni gli assetti politici, culturali ed economici del mondo fino ad allora conosciuto. Dal punto di vista della farmacologia, i viaggi di Colombo ebbero due contradittorie conseguenze. La prima fu che l’Europa scoprì nuove piante da impiegare come medicamenti, quali, per esempio, la Gialappa, il Guanaco o Guajaco, l’Hydrastis, l’Ipercacuana, la Ratania, la Salsapariglia. La necessità di studiare le varie specie erboristiche provenienti da quello che fu chiamato, etnocentricamente, “Nuovo Mondo” spinse, inoltre, le università di Padova, Pisa, Bologna e Heidelberg alla creazione di erbai (raccolte di piante essiccate e classificate) e alla costruzione di orti botanici. 71,72 La seconda conseguenza determinata dalle nuove rotte “aperte” dal navigatore genovese fu che Europa e America si scambiarono due infezioni, vaiolo e sifilide, a cui le rispettive popolazioni non erano mai state esposte e che ebbero effetti rilevanti non soltanto sul piano epidemiologico, ma anche sociale ed economico in entrambi i continenti, benché a pagare il prezzo più caro furono senza dubbio le popolazioni indigene di quella che sarà chiamata America latina.73,75
In questi anni, il sapere naturalistico, e quindi anche quello farmaceutico e medico, iniziò ad assumere le sembianze di scienza intesa in senso moderno con Galileo Galilei, soprattutto per merito del metodo sperimentale in cui all’osservazione diretta e agli esperimenti di laboratorio (le «sensate esperienze») si associava l’uso rigoroso di relazioni matematiche (le «necessarie dimostrazioni»).76,77 Questa metodologia, basata, come è noto, sulla verifica sperimentale delle ipotesi, troverà tuttavia riscontro solo nella seconda metà del Secolo XIX in medicina, con la pubblicazione nel 1865 della monumentale Introduction à l’étude de la médicine expérimentale di Claude Bernard, e in farmacologia, con la nascita dei primi farmaci di sintesi.78 
I più interessanti e importanti tentativi per indirizzare il pensiero medico seicentesco verso le nuove idee scientifiche galileiane furono compiuti dalle scuole di iatromeccanica e iatrochimica.79 La iatromeccanica affermava l’idea che l’essere vivente fosse una macchina composta da “carrucole”, “pulegge” e “setacci”, per cui i farmaci “funzionavano” «dilatando o restringendo i pori, aumentando o diminuendo il tono delle fibre, penetrando più o meno profondamente nell’organismo con le loro particelle».80 Elaborata da William Harvey, ma consolidata come disciplina da Marcello Malpighi,81 la iatromeccanica ebbe tra i suoi principali sostenitori il medico istriano Santorio Santorio (con il suo libro Ars de statica medica del 1614 e i suoi studi sul metabolismo, la termoregolazione umana e la perspiratio insensibilis) e il galileiano napoletano Giovanni Alfonso Borelli – la cui opera, pubblicata postuma nel 1681, De motu animalium, può essere ritenuto un riuscito breviario della medicina iatromeccanica –, il quale riteneva «la vita una serie coordinata di fenomeni motori rappresentabili e misurabili con gli strumenti della matematica».82
La iatrochimica, in cui non può non riconoscersi l’influenza del pensiero di Paracelso, fu fondata dall’olandese François de La Boë con l’obiettivo di ricondurre le malattie alle alterazioni di tipo chimico, considerate alla base di qualsiasi fenomeno vitale: «tutte le forze del corpo devono seguire i processi chimici della fermentazione e delle effervescenze», di conseguenza, «i farmaci devono agire riducendo l’acidità e l’alcalinità degli umori o producendo fermentazioni, ribollimenti, trasformazioni nel sangue e nei liquidi che irrorano i tessuti». 83,84 La iatrochimica fu il primo colpo concreto inferto, dopo secoli, alla validità delle teorie galeniche e diede il via all’affermazione di un nuovo modo di intendere la salute imperniata, piuttosto che sulle caratteristiche del paziente specifico, sull’osservazione empirica della malattia in senso generale, nel tentativo, almeno formale, di recuperare un ippocratismo delle origini e non travisato dagli autori successivi.85 
Benché la terapia tradizionale “individualizzata” non fu accantonata del tutto e continuò a essere utilizzata nell’ambito del contesto dottrinario della patologia umorale, durante l’illuminismo gli approcci terapeutici abbandonarono gradualmente l’usanza di trattare o-gni singolo sintomo e disturbo secondo la condizione personale di ciascun paziente, ed evolsero verso un meccanismo di interpretazione che si serviva di classificazioni patologiche (nosologie) e teorie fisiopatologiche. 86 Così, mentre il medico che seguiva un approccio galenico si concentrava sulle condizioni del paziente e dei suoi bisogni specifici, il medico che faceva ricorso alla nosologia doveva prima di tutto stabilire una diagnosi identificando la malattia tra quelle in precedenza descritte e classificate, e poi, in conseguenza di ciò, indicare il trattamento appropriato.
Il sistema nosologico ebbe in Thomas Sydenham il suo precursore e in William Cullen il suo esponente di punta. Assistito dall’amico, medico e filosofo John Locke, Sydenham compilò, con buona probabilità, le prime cartelle cliniche della storia, annotando di ogni paziente il manifestarsi, lo sviluppo e l’eventuale scomparsa di ciascun sintomo. Sulla scorta del metodo induttivo baconiano, Sydenham trasformò le sue cartelle cliniche in resoconti sulla malattia in senso più ampio, le cosiddette “historiae morborum”, che con-tenevano descrizioni ancora più minuziose della sequenza dei sintomi, ma tralasciavano le variazioni rilevate nei singoli pazienti. 87
Il credito nei confronti di Bacone e Sydenham da parte dei nosologi è evidente, specie nei casi di Giorgio Baglivi, François Boissier de Sauvages e, soprattutto, del già ricordato Cullen.88 Il modello terapeutico di Cullen, che diventerà dominante verso la fine del Sette-cento, stabiliva che, per un trattamento efficace, i rimedi dovevano essere adattati al genere, alla specie e, perfino, alla varietà della malattia: per tale ragione, erano previste quattro classi (pyrexiae, neuroses, cachexiae e locales), suddivise in un totale di diciannove ordini e centotrentadue generi.89 Il modello di Cullen, non privo di ambiguità e contraddizioni, ben rappresentava la situazione in cui versavano le scienze del medicamento in quegli anni, vale a dire un precario equilibrio tra rigurgiti di un’alchimia socialmente ancora piuttosto forte e i prodromi di quella che a breve avrebbe assunto il nome di chimica farmaceutica. Sintomatico di questo clima il fatto che Samuel Johnson, critico letterario, poeta e saggista britannico, inserisse nel suo famoso Dictionary of the English Language, la maggior parte degli elementi chimici conosciuti verso la metà Secolo XVIII, incluso il cobalto che era stato appena isolato. All’interno di questo dizionario, la voce dedicata all’antimonio, oltremodo maliosa nonché, per molti aspetti, non priva di involontaria ironia, può reputarsi una sorta di cerniera tra due epoche della chimica.90 Johnson, infatti, ipotizzava che la ragione della denominazione moderna dell’antimonio, rispetto a quella latina stibium si potesse ricondurre «a Basilio Valentino, un monaco tedesco che, narra la tradizione, dopo aver gettato un po’ di antimonio ai porci, osservò che la sostanza aveva avuto su di essi un forte effetto lassativo, terminato il quale gli animali avevano iniziato subito a ingrassare; una dose del genere pensò quindi, avrebbe potuto far bene anche ai suoi compagni monaci.91 L’esperimento, tuttavia, andò così male che i monaci morirono tutti; di conseguenza da allora la medicina ha chiamato questa sostanza antimoine, ossia antimonaco».92
Sarà soltanto al principio del Secolo XIX che la fisiologia e la chimica abbandoneranno in modo definitivo il percorso alchemico e assumeranno le caratteristiche di vere e proprie scienze. Gli studiosi di entrambe le discipline iniziano ad affidarsi finalmente a una me-todologia di ricerca impostata sulla sperimentazione sistematica realizzata prima in laboratorio (in vitro) e poi sugli organismi viventi (in vivo).93 Così, la fisiologia può approfondire il funzionamento del corpo sia in condizioni normali, sia in condizioni patologiche, mentre la chimica può selezionare i principi attivi delle preparazioni ottenute in gran parte da erbe e piante.94
Un primo tangibile segno di questo nuovo corso, che cambierà per sempre la storia della medicina, sarà l’individuazione dei primi vaccini di concezione moderna, il cui uso su larga scala migliorerà, e salverà, l’esistenza di milioni di individui con evidenti e positive ricadute sociali.95 Tutto ebbe inizio nel 1796, quando Edward Jenner sperimentò, a partire dal vaiolo bovino, una preparazione capace di garantire una resistenza specifica nei confronti di una determinata malattia infettiva. Jenner aveva infatti notato che i mungitori che contraevano il vaiolo bovino dalle vacche non si ammalavano poi della versione umana dello stesso morbo.96 Il medico e naturalista britannico, supponendo che l’infezione di vaiolo bovino potesse fornire una qualche forma di protezione nei confronti di quella uma-na, approntò una sostanza liquida contenente il virus bovino che poi iniettò in un ragazzino inglese di otto anni, James Phipps, usando come siringa una spina.97 Dopo qualche settimana, per verificarne l’efficacia, somministrò a Phipps una dose di vaiolo umano che, pe-rò, non attivò la malattia poiché il virus bovino inoculato in precedenza aveva stimolato la produzione di anticorpi e immunizzato il bambino.98 L’eccezionale risultato conseguito da Jenner, aprì la strada nei decenni successivi a nuove ricerche che permisero a Robert Koch e Louis Pasteur di creare i vaccini per il carbonchio e la rabbia.99
La farmaceutica compie in questi anni enormi progressi, iniziano a essere riconosciute le relazioni tra dose ed effetto, e quelle fra struttura e attività farmacologica. Giovanni Semmola nel suo Trattato di farmacologia e terapia generale del 1853 affronta le modalità di assorbimento dei medicinali, partendo dal presupposto che non solo il farmaco riesce a modificare l’organismo, ma che anche l’organismo influenza l’attività del farmaco.100 
Sempre in questo periodo viene compreso che, nelle droghe vegetali, l’attività medicamentosa è dovuta a uno o più principi attivi, i quali, concentrati nei semi, nelle cortecce, nelle foglie, nei fiori e nelle radici, sono sintetizzati dalla pianta durante un ciclo biologico annuale o pluriannuale. A tale scopo sono isolate allo stato di purezza molti costituenti, come i glucosidi e gli alcaloidi: proprio questi ultimi, sono da considerarsi, secondo Egidio Pollacci, «una delle più belle conquiste scientifiche della prima metà del Secolo XIX». 101-103 Di fatto, i tempi sono maturi per la nascita della farmacologia come scienza autonoma. Saranno Rudolf Buchheim e il suo di-scepolo Oswald Schmiedeberg a fondarla, dedicandosi alla correlazione tra la struttura chimica delle sostanze e la loro efficacia come farmaci. Schmiedeberg, in particolare, si impegnerà a raggruppare tutti i composti capaci di esplicare un’azione farmacologica analoga, ponendo le basi della classificazione scientifica dei farmaci.
Nell’Ottocento, la farmacologia ebbe un ruolo cruciale anche per lo sviluppo della chirurgia che poté beneficiare delle scoperte dell’anestesia e dell’antisepsi: William Green Morton, attraverso l’uso di un etere, riuscì a sedare per la prima volta nel 1846 un paziente durante un’operazione.104 In modi e forme diverse, Ignác Semmelweis (con l’ipoclorito di calcio nel 1847) e poi – ispirato dai contributi di Louis Pasteur – Joseph Lister (con l’acido fenico nel 1865) riuscirono a debellare le conseguenze degli agenti patogeni nelle sale operatorie.105
L’avvio della fabbricazione dei medicamenti per sintesi chimica – vale a dire prodotti da sostanze non più estratte da vegetali o animali, ma ricavate artificialmente in laboratorio – provocò una rivoluzione che investì l’intera società ottocentesca.106 Si innescò, infatti, un processo di industrializzazione della produzione farmaceutica che se da un lato trasformò il farmaco in «un rimedio innovativo per le sue enormi capacità curative e per la sua ampia e facile disponibilità», dall’altro lo rese “merce”, «in grado di determinare un profitto economico e come tale sottoposto alle rigide regole del mercato commerciale».107,108
Tra il 1880 e la Prima Guerra Mondiale, l’industria farmaceutica visse dunque un periodo di straordinaria crescita, soprattutto in Germania e in Svizzera, Paesi dove sussistevano molteplici fattori che si riveleranno decisivi: «la presenza di una importante industria chimica, quella dei coloranti, che determinò la scoperta degli Arsenobenzoli e dei Sulfamidici, (…) la disponibilità di rilevanti capitali e un concreto spirito imprenditoriale nei riguardi dello sviluppo dei farmaci». 109 Alcune di queste realtà industriali, come le tedesche Bayer (1863), BASF (1865) e Schering (1871) o le svizzere CIBA (1884), Sandoz (1886) e Hoffman La Roche (1894), diventeranno celebri aziende multinazionali tuttora esistenti.110 In Italia, le aziende farmaceutiche nacquero dalla trasformazione dei laboratori di antiche farmacie, per esempio, a Torino per opera di Giovanni Battista Schiapparelli (1823), e a Milano per opera di Carlo Erba (1853), di Ludovico Zambeletti (1868) e di Roberto Giorgio Lepetit (1864).
Le logiche del profitto si intrecciarono così con quelle della ricerca, permettendo la nascita di numerose nuove medicine. Il primo vero farmaco sintetico utilizzato in clinica prodotto dall’industria farmaceutica111 fu l’Acetofenetidina che, conosciuta come Fenacetina, precursore dell’odierno Paracetamolo, fu brevettata e introdotta sul mercato nel 1888 dalla Bayer.112 Sempre la Bayer, dieci anni dopo commercializzò il secondo farmaco di sintesi, ossia l’acido Acetilsalicilico con il nome di Aspirina.113 Nel 1903 Emil Hermann Fischer e Joseph von Mering, sfruttando l’acido barbiturico che Adolf von Baeyer nel 1863 aveva sintetizzato a partire dall’urea e dall’acido malonico, prepararono il Barbital che, venduto con il nome di Veronal, fu molto usato fino alla metà del Secolo XX quando fu sostituito dalle benzodiazepine.
Nel 1909, Paul Ehrlich creò un composto arsenicale, il Salvarsan, che fu il primo vero rimedio per la cura della sifilide, e fino all’avvento della penicillina, il solo farmaco per contrastare questa malattia.114,115 Il Salvarsan è stato però importante più che per gli effetti terapeutici, per la qualità degli studi che ne permisero la realizzazione e che ebbero significativi sviluppi successivi. In particolare, Ehrlich aveva capito che esisteva un’affinità chimica che regolava i processi biologici, per cui alcune sostanze (che battezzò “pallottole magiche”) potevano neutralizzare determinati microrganismi senza provocare danni alla struttura che li ospitava. Nel corso dei suoi esperimenti di colorazione selettiva delle cellule del sistema immunitario, Ehrlich aveva testato gli effetti della tintura all’anilina blu di metilene sul Plasmodio della malaria, sfruttando l’esame della colorazione dei batteri messa punto dal patologo danese Hans Joachim Christian Gram nel 1884. 116,117 Il premio Nobel tedesco concentrò poi la sua attenzione sul Treponema pallidum, il batterio della sifilide individuato nel 1905 da Fritz Schaudinn e Paul Erich Hoffmann. Dopo prolungate e pazienti ricerche di laboratorio, con la preparazione 606, che riprendeva quella dei coloranti azoici, ma con l’arsenico al posto dell’azoto, nacque il Salvarsan (un gioco di parole per contrazione di “l’arsenico che salva”), il primo chemioterapico con una tossicità accettabile attivo contro la sifilide.118
Benché, come accennato, sul piano curativo i risultati ottenuti sulla sifilide dagli arsenobenzoli non furono brillanti, le idee di Ehrlich rappresentarono una tappa fondamentale per la nascita della farmacoterapia antimicrobica e per la formulazione del concetto di recettore.119 A partire dalle sue intuizioni, infatti, negli anni Trenta diversi scienziati si concentrarono sugli effetti antibatterici dei gruppi sulfanilamidici contenuti in alcuni coloranti industriali, allora molto utilizzati per la loro proprietà di fissarsi in modo intenso e selettivo alle fibre di lana e di seta dei tessuti. Questi sforzi permisero nel 1934 a Gerhard Domagk, ricercatore della Bayer, di identificare l’attività antibatterica di un colorante rosso (la p-sulfanilcrisoidina), a cui venne dato il nome di Prontosil Rubrum (Prontosil Rosso), capace di bloccare la moltiplicazione dello pneumococco, responsabile della polmonite, dello streptococco e del meningococco. 120
La vera svolta, tuttavia, si ebbe con la scoperta della penicillina. Alexander Fleming, nel 1929, si accorse, per caso, che in un terreno di coltura dove erano stati seminati degli stafilococchi, la caduta non voluta di una spora aveva creato una colonia di una comune muffa, il Penicillium notatum, intorno alla quale gli stafilococchi non si sviluppavano. Fleming capì che questo fenomeno era provocato dell’attività antibatterica esercitata dalla sostanza prodotta dalla muffa, che, per tale ragione, chiamò penicillina.121 La penicillina fu però isolata solo nel 1940 per merito di Ernst Boris Chain e Howard Walter Florey, i quali ne dimostrarono le capacità in vivo, che, di fatto, ne permise l’avvio della produzione industriale. Questi studi valsero a Fleming, Chain e Florey il premio Nobel per la medicina e la fi-siologia nel 1945.
Una quarantina di anni prima che Fleming riscontrasse la colonia di Penicillium notatum in una coltura di stafilococchi, vale a dire nel 1893, un medico della Marina militare italiana, Vincenzo Tiberio, «aveva già formulato l’ipotesi, avvalorata poi dai risultati di ricer-che sperimentali da lui condotte, (…) e documentata in uno studio, del potere di distruzione sui batteri di certe muffe».122 Tutto ebbe inizio nella casa di via Zanardelli ad Arzano, un paese vicino Napoli, dove Tiberio viveva e dove vi era un pozzo per la raccolta dell’acqua piovana utilizzata per bere. L’umidità del luogo faceva sì che sul bordo della cisterna crescesse spesso un denso strato di muffa che veniva periodicamente rimosso. Tiberio notò che ogni qual volta il pozzo veniva ripulito, gli abitanti della casa andavano incontro a gastroenteriti, mentre ciò non accadeva nei periodi in cui le muffe erano presenti. 123 Egli intuì che tali muffe fossero dotate di un’azione battericida e chemiotattica, pertanto, le isolò, ne testò l’effetto benefico, sia in vitro, sia in vivo su varie cavie, e preparò un farmaco sperimentale con effetti antibiotici. Nel gennaio del 1895 Tiberio pubblicò sulla rivista universitaria napoletana Annali di Igie-ne sperimentale i risultati di queste ricerche in un articolo dal titolo Sugli estratti di alcune muffe.124 Purtroppo per Tiberio, l’articolo era in italiano ed ebbe una pressoché nulla diffusione all’estero, e comunque i colleghi italiani ritennero i suoi risultati il frutto di fortui-te coincidenze e di nessun interesse scientifico.125 In realtà, mentre Fleming aveva scoperto la muffa della penicillina per caso, Tiberio ci era arrivato con consapevolezza e, rispetto al premio Nobel inglese, aveva appunto preparato un farmaco sperimentale, chiudendo così il ciclo di ricerca.126
Per certi aspetti la vicenda di Giuseppe Brotzu è molto simile a quella di Vincenzo Tiberio. Brotzu, direttore dell’Istituto di Igiene dell’Università di Cagliari, con il suo collaboratore Antonio Spanedda, scoprì alla fine degli anni Quaranta le cefalosporine. Le loro intuizioni nacquero osservando i bagnanti della zona di Su Siccu di Cagliari, i quali pur venendo a contatto con acque allora fortemente inquinate, non contraevano nessuna infezione di salmonellosi, tifo o paratifo. I due studiosi isolarono una moniliacea del genere Cephalosporiumin, in seguito identificata come Cephalosporium acremonium, da cui trassero una preparazione ad hoc che prima provarono su loro stessi e poi somministrarono ad alcuni pazienti affetti da salmonellosi, ricoverati nell’Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari. Il preparato diede ottimi risultati senza scatenare nessun effetto collaterale di rilievo, ma tutto ciò non bastò per ottenere dai principali enti di ricerca italiani i fondi per proseguire gli studi. Il medico sardo decise, perciò, di inviare attraverso un ex ufficiale sanitario inglese in forza nell’esercito di occupazione in Sardegna, alcuni campioni delle sue culture a Florey, nei cui laboratori un gruppo diretto da Edward Panley Abraham e Guy Newton estrasse e purificò tra il 1951 e il 1961 differenti sostanze, tra cui la cefalosporina C, capostipite di una nuova generazione di antibiotici. 127,128 Se le ricerche di Tiberio non riscossero quella considerazione che avrebbe senz’altro meritato, a Brotzu fu perlomeno riconosciuta la paternità della scoperta, benché soltanto nel 1970.
Tra il 1950 e il 1970 le industrie farmaceutiche investirono ingenti finanziamenti e tecnologie sempre più all’avanguardia per individuare e produrre nuovi antibiotici. Questo incredibile sforzo permise di realizzare antibiotici, come, per esempio, l’eritromicina (Streptomyces arithreus), la neomicina (Streptomyces fradice), la vancomicina (Streptomyces orientalis) e la rifampicina (Amycolaptosis rifamycinica). Tra questi, la rifampicina (negli Stati Uniti d’America nota come rifampina) merita un breve quanto doveroso approfondimento. Nel 1965, durante una ricerca sistemica condotta da un gruppo di studiosi capitanato da Piero Sensi per i Laboratori di Ricerca Lepetit di Milano, fu isolato da un campione di terra proveniente dalla Costa Azzurra, un microorganismo dapprima considerato appartenente al genere Streptomyces e poi riclassificato come Nocardia.129,130 Il prodotto di semisintesi che se ne ricavò, venne introdotto in commercio nel 1968 con il marchio Rifadin e si rivelò subito molto efficace per il trattamento della lebbra, della legionella e soprattutto della tubercolosi.131 Molte evidenze cliniche dimostrarono che la rifampicina, che all’inizio fu utilizzata come medicinale alternativo di supplemento nei trattamenti convenzionali, se usata come farmaco di prima scelta in associazione con altri agenti antitubercolari, e in particolare con l’isoniazide, produceva risultati sorprendenti rispetto alle precedenti terapie, sia per le tempistiche di guarigione molto più brevi, sia per la minor frequenza di ricadute.132,133 La commercializzazione della rifampicina fu, probabilmente, una delle vette più alte e prestigiose della farmaceutica italiana degli anni Sessanta, un periodo in cui l’Italia viveva, parallelamente al cosiddetto “miracolo economico”, un autentico «miracolo farmacologico e farmaceutico».134
I farmaci durante il Novecento diventano dunque un articolo industriale che se permette di curare molte persone e molte malattie, allo stesso tempo, arricchisce chi lo produce. D’altronde, come si è visto, il farmaco acquisisce già sul finire del Secolo XIX lo status di merce ed è, quindi, sottoposto a quelle logiche di mercato e di profitto che non sempre rispettano le esigenze e i diritti del consumatore-paziente. E, infatti, accanto ai grandi trionfi, non tardano ad arrivare immani tragedie frutto di errori o, più spesso, di “convenienti” superficialità. Tra il settembre e l’ottobre del 1937 una preparazione liquida di un sulfamidico – l’Elixir Sulfanilamide, prodotta dalla Samuel Evans Massengill Company, un’azienda di Bristol in Tennessee, contenente, per solubilizzare il farmaco, un veicolo tossico, il glicole dietelenico (un composto base dei liquidi anticongelanti) – provocò negli Stati Uniti d’America la morte di almeno centocinque persone in ben quindici Stati dell’Unione. 135 Ma l’episodio più grave fu senza dubbio quello legato alla talidomide, un farmaco ad azione ipnotica che, se assunto in gravidanza, determina nei nascituri una gravissima malformazione, la focomelia. Tutto ebbe inizio quando l’industria tedesco occidentale Chemie Grünenthal nel 1954 depositò e ottenne il brevetto per il Contergan, un antinausea e sedativo a base di talidomide. Sfruttando un’imponente campagna di marketing, e il fatto che nell’allora Repubblica Federale Tedesca il Contergan potesse essere acquistato senza prescrizione medica, questo farmaco ebbe un tale successo di vendite che ne fu decisa la distribuzione e la vendita in quarantasei Paesi. 136 Nel 1959 alcuni studi europei evidenziarono possibili effetti neuropatologici correlati all’uso di talidomide e, nel medesimo anno, Frances Kelsey, farmacologa in servizio presso il Food and Drug Administration (FDA), nonostante le pressioni della casa farmaceutica, negò la licenza di commercializzazione del farmaco negli Stati Uniti d’America. L’anno successivo durante un congresso pediatrico tenutosi a Düsseldorf, Widukind Lenz, commentando due casi clinici con difetti congeniti agli arti, suggerì che tali malformazioni potevano essere connesse all’uso della talidomide in gravidanza. Lenz avviò una serie di indagini che sfociarono in un esplicito rapporto contro il farmaco a cui furono imputati in tutto il mondo circa diecimila casi di malformazioni. Il 2 dicembre del 1961 la talidomide venne ritirata dal mercato in Gran Bretagna, nove mesi dopo fu il turno dell’Italia e poi in breve tempo in tutti gli altri Paesi in cui era stata commercializzata. 137
Il caso talidomide incise profondamente sulla coscienza popolare dell’epoca e costrinse le autorità sanitarie a rivedere e a emanare nuove normative indirizzate a una più corretta sperimentazione farmacologica e clinica dei medicamenti, tale da garantire l’assenza di gravi effetti avversi e collaterali e la reale efficacia terapeutica dei medicinali immessi in commercio.138 Così, negli Stati Uniti d’America, il 10 ottobre del 1962, fu firmato dal presidente John Kennedy il “Kefauver Harris Amendment” che modificò il Federal Drug and Cosmetic Act, introducendo i requisiti etici della sperimentazione clinica e il protocollo randomizzato a gruppi paralleli in “single o double blind”.139,140 Questa norma, nata per scopi regolatori, fu di fatto adottata dalla comunità scientifica per le dimostrazioni di efficacia e promosse un cambiamento sostanziale dei protocolli tossicologici, integrati da farmacocinetica e tossicocinetica. Allo stesso modo, il 26 gennaio del 1965 l’allora Consiglio della Comunità Economica Europea (CEE) adottò la Direttiva n. 65 “per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e amministrative relative alle specialità medicinali”, che diventerà un punto di riferimento imprescindibile per tutte le legislazioni in materia di farmaci in quei Paesi che, dopo qualche decennio, entreranno a far parte della Comunità Europea. 141 Tale norma, che adeguava l’Europa a quanto già fatto negli Stati Uniti d’America, stabiliva che la documentazione per ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione di un nuovo farmaco doveva essere costituita da «prove fisico-chimiche, biologiche o microbiologiche; farmacologiche e tossicologiche; cliniche».142 L’evoluzione di questa normativa ha portato all’emanazione di un codice condiviso da tutti gli Stati dell’UE e alla creazione di un’agenzia regolatoria comunitaria, l’EMEA (European Medicines Evaluation Agency), dal 2005 denominata EMA (European Medicines Agency), che ha stimolato la nascita di agenzie regolatorie nazionali: per esempio, in Italia nel 2004, con il Decreto legge n. 269 del 30 settembre 2003, nasce, sostituendo la vecchia autorità preposta al rilascio dell’AIC dei prodotti medicinali, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). 143,144
Eppure, non si può non rimarcare che il sorprendente sviluppo delle scienze, delle tecnologie e, in generale, delle tecniche, che aveva reso protagonista l’Ottocento rispetto alla Storia, assumerà durante il Novecento forme e proporzioni tali da incidere, come non mai, sulle esistenze degli individui. E non saranno solo gli straordinari traguardi raggiunti a segnare il passo rispetto alle epoche precedenti, ma anche i tempi, estremamente brevi, tra una tappa e l’altra. Il Novecento, del resto, si può dire, si erga a spartiacque stigio tra un mondo che scompare e un altro proiettato verso un futuro sempre più vicino e, in tutte le sue accezioni, presente.145 La farmacologia novecentesca non fa eccezione e consegue, come già in parte accennato nelle pagine precedenti, un’incredibile serie di successi che miglioreranno la vita e, soprattutto, le possibilità di sopravvivenza dell’umanità. Basti pensare che «i sulfamidici, la penicillina, l’insulina, le vitamine, gli anticoagulanti vengono scoperti nella prima metà di questo secolo, mentre negli anni successivi alla seconda guerra mondiale vengono introdotti in terapia, insieme ai nuovi antibiotici, i farmaci per l’ipertensione arteriosa, i farmaci per le malattie metabolico-degenerative, quali l’arteriosclerosi, e per le loro complicanze (trombosi coronariche e cerebro-vascolari), nuovi farmaci antitumorali, nonché farmaci per i disturbi mentali gravi come le psicosi. Vengono altresì scoperti i farmaci “inibitori della pompa protonica”, come l’Omeprazolo, capaci di bloccare o ridurre la secrezione acida gastrica e quindi efficaci nella terapia dell’ulcera gastro-duodenale e dell’esofagite da reflusso». 146 Tutti questi nuovi farmaci contribuiscono ad aumentare in modo notevole la durata media della vita degli individui. In tal senso, se si utilizza l’Italia come caso paradigmatico dei miglioramenti che si sono avuti nei cosiddetti Paesi occidentali in relazione alla speranza di vita alla nascita, bisogna ricordare che se nel 1861 i bambini del Regno d’Italia avevano un’aspettativa di vita alla nascita di ventinove/trent’anni, nel 2015 il medesimo indicatore si attestava a 80,1 anni per gli uomini e 84,6 anni per le donne. 147,148
La scoperta che tuttavia distinguerà il “secolo breve” è senz’altro quella dell’acido desossiribonucleico (DNA), la cui struttura molecolare e i rapporti esistenti fra essa e i meccanismi connessi all’ereditarietà del patrimonio genetico, furono descritti nel 1953 da Harry Francis Crick e James Dewey Watson, i quali, proprio per queste ricerche, nove anni dopo vinsero il premio Nobel.149,150
L’identificazione del DNA ha avuto un’importanza che è andata ben oltre la spiegazione della struttura e della funzionalità della molecola, poiché è stata l’innesco per una serie di nuove conoscenze che si riveleranno significative sia in termini scientifici, sia per le ricadute, non soltanto farmaco-sanitarie, sulle società umane. In tal senso, la più influente tecnologia scaturita dalla scoperta di Watson e Crick è stata, forse, l’ingegneria genetica.
L’ingegneria genetica, nata agli inizi degli anni Settanta per merito di Paul Berg, Herbert Boyer e Stanley Cohen, può essere brutalmente descritta come un’operazione di “taglio, cucito e copiatura”.151 Nello specifico, il gene viene dapprima escisso dal DNA dell’organismo da cui proviene, quindi “cucito” dentro una nuova molecola di DNA, ossia nel vettore, che lo trasporta nell’organismo ospite. Infine, viene copiato numerose volte, ovvero clonato, man mano che l’organismo ospite si riproduce.152 Questo processo di acquisizione in laboratorio di un gene estraneo, in realtà, non è tanto innovativo, per certi aspetti, «ogni volta che un individuo si ammala di raffreddore, acquisisce – contro la sua volontà – geni virali estranei».153 Ciò che distingue l’ingegneria genetica rispetto a ciò che avviene in natura è il fatto che tale trasferimento possa avvenire in modo, almeno in parte, controllabile.154
Con il trasferimento di un DNA estraneo in un animale, in una pianta o in un microbo, si ottiene un organismo transgenico. Queste nuove forme di vita, presenti, sempre più spesso, in svariati e diversi settori del quotidiano, hanno però posto una seria problematica etica.155 Infatti, benché posseggano nel proprio DNA un solo gene di una specie estranea, hanno, comunque, genomi diversi da tutte le creature emerse nel corso di quella che è considerata la naturale evoluzione delle specie che vivono sulla Terra. Quanto sia radicale questa differenza, dipende dal punto di vista con il quale si interpreta la questione: «si può sostenere che gli esseri umani abbiano da sempre “interferito” con suddetta evoluzione, con lo sviluppo delle tradizionali tecniche d’incrocio delle piante e degli animali, e che l’ingegneria genetica non sia altro che una tecnologia più sofisticata per realizzare incroci. Oppure ci si può schierare con chi guarda all’ingegneria genetica con profondo sospetto per la sua capacità di infrangere le barriere tra le specie». 156
Il primo caso di applicazione commerciale dell’ingegneria genetica in campo farmaceutico si è avuto con l’introduzione del gene per l’insulina in un comune batterio intestinale, l’Escherichia coli che ha, di fatto, dato avvio alla nascita dei farmaci biotecnologici. I farmaci biotecnologici non sono il risultato di una sintesi chimica ma, attraverso la tecnica del DNA ricombinante, sfruttano i meccanismi molecolari intrinseci della duplicazione del materiale genetico di un organismo. Tale tecnica consiste nel mettere insieme (“combinare”, appunto) geni di origine diversa e di inserirli all’interno di un microorganismo. Per esempio, con l’appena ricordato inserimento del gene umano che presiede alla sintesi dell’insulina all’interno del genoma del batterio Escherichia coli, è stato possibile produrre per la prima volta l’insulina umana in modo artificiale. Prima di allora, l’insulina veniva estratta chimicamente dalle ghiandole pancreatiche di cavalli e maiali provenienti dai macelli e, proprio per questo, poteva indurre nell’essere umano reazioni allergiche.157,158 La produzione di insulina con la tecnologia del DNA ricombinante, che sarà commercializzata dalla statunitense Genetech a partire dal 1982, ha assicurato, oltre a una riserva pressoché infinita di questa sostanza, grandi vantaggi in terapia: l’insulina così ottenuta è identica a quella prodotta dall’organismo e presenta dunque un minor rischio di reazioni avverse.159
Dopo l’insulina, sono state create numerose sostanze con la tecnica del DNA ricombinante che si sono rivelate fondamentali in terapia (si pensi, per esempio, all’ormone follicolo-stimolante o all’eritropoietina), non deve, perciò, stupire se i farmaci di provenienza biotecnologica erano nel 2000 meno del 10% dei farmaci disponibili, mentre quindici anni dopo hanno acquistato uno spazio rilevante con una tendenza in continua crescita.160
Lo studio dei genomi e dei loro meccanismi biologici rappresenta pertanto una feconda frontiera che, in futuro, condizionerà non solo i destini della farmacologia, ma di molti altri settori della conoscenza, da quelli medici e biomedici, a quelli sociali o politici.161 Per ciò che concerne la farmacologia, la gran parte degli investimenti, umani e finanziari, profusi in questo campo si stanno concentrando sugli effetti dei farmaci generati su base molecolare e sulle potenzialità che posseggono quelle terapie concepite sulla conoscenza della struttura del materiale genetico. In particolare, «le variazioni nella sequenza di DNA da un individuo all’altro, hanno introdotto il concetto di impronta digitale del DNA» che dovrebbe permettere la possibilità di «studi predittivi, capaci cioè di indentificare il rischio reale di sviluppare una determinata patologia». 162 D’altronde già con le odierne tecniche di sequenziamento genomico è possibile definire l’ereditarietà genetica delle malattie e di comprendere la modulazione dell’ambiente sul genoma nei diversi individui, e attuare così una certa “personalizzazione” della medicina e delle terapie: «il sequenziamento genetico su vasta scala e la bioinformatica consentono l’analisi massiva di dati correlati alle informazioni sugli stili di vita mediante algoritmi. 163,164 Sulla base dell’analisi di enormi quantità di dati (correlazione tra sequenziamento genetico, stili di vita e ambiente), con la comparazione tra sani e malati si identificano i diversi fattori di rischio e le tipologie di gradi di suscettibilità a malattie. Gli algoritmi consentono le predizioni di patologie o di progressioni di patologie. Questo nuovo approccio esige tuttavia un’imprescindibile interazione tra ricercatori (biologi, genetisti, medici, farmacologi) e fisici, matematici, ingegneri e informatici». 165
I grandi risultati ottenuti dalla ricerca scientifica in questi ultimi decenni hanno, ancora una volta, come contraltare quelle contrad-dizioni espresse da un sistema economico, oramai pervasivo, dominante e globalizzato, che, a tutt’oggi, non ha smesso di caratterizzare le dinamiche della sfera farmaco-sanitaria. Emblematico, in tal senso, il largo impiego di antibiotici – per esempio, in Italia nel 2017 gli antimicrobici generali per uso sistemico hanno rappresentato la terza categoria terapeutica di maggior spesa pubblica, pari a quasi 3.486 milioni di euro (vale a dire 57,54 euro pro capite) – che se da un lato ha consentito di guarire milioni di malati con infezioni in potenza letali, dall’altro ne ha determinato un uso eccessivo e inappropriato, provocando l’insorgenza di germi patogeni antibioticoresistenti e la conseguente necessità di dover creare nuovi e più potenti antibiotici, in un gioco al rialzo dagli esiti ancora incerti.166,167
Al termine di questa breve ricognizione – di certo non esaustiva, ma che del resto si propone, quale fine prioritario, di stimolare nuovi e più approfonditi studi sulla storia del farmaco –, non si può non sottolineare come la farmacologia sia un sapere antichissimo e insieme modernissimo, che anche oggi affianca pratiche che si perdono nella notte dei tempi con approcci ipertecnologici. Dalle società primitive, in cui la figura del farmacista era un tutt’uno con quella del medico, del sacerdote e del filosofo, si è arrivati all’evo contemporaneo dove la farmacologia non solo è una scienza autonoma e dai confini ben riconoscibili, ma una disciplina che, a sua volta, si suddivide in svariate branche, ognuna con la propria, decisiva, importanza. Da quelle più “tradizionali”, come, per esempio, la farmacologia dei sistemi, la farmacocinetica o la tossicologia, si sono via via dispiegate nuove traiettorie che spaziano dalla biotecnologia alla farmacogenetica, dalla farmacogenomica alla farmacoepidemiologia, dalla farmacoeconomia alla farmacovigilanza, in un continuo sforzo a superarsi giorno dopo giorno, anno dopo anno. Quasi a voler confermare quell’intuizione weberiana per cui una scoperta-invenzione scientifica può considerarsi realmente “riuscita” solo quando viene, in tempi brevi, superata da un nuovo sapere che ha così invecchiato in modo rapido la scoperta iniziale: «questo è il destino, anzi il senso del lavoro della scienza (…): ogni “riuscita” scientifica deve comportare nuove questioni e pretendere quanto prima di essere superata e invecchiata».168


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